Con un congresso a
Rimini, sono iniziate la settimana scorsa le celebrazioni per i cento anni
dell' Unitalsi. Sigla dal suono un po' burocratico che nasconde, in
realtà, l' impegno generoso di trecentomila persone, presenti in ogni
diocesi, per portare malati e sani soprattutto a Lourdes, ma pure negli
altri luoghi sacri del cattolicesimo. Gli inizi, nel 1903, si devono a un
anticlericale romano, Giambattista Tommasi, che voleva suicidarsi nella
grotta stessa di Massabielle, anche per protestare contro «l' oscurantista
superstizione cattolica». In realtà, non soltanto la pistola gli cadde
dalle mani ma, convertito di colpo, dedicò il resto della sua vita ad
aiutare infermi poveri a raggiungere le sponde del fiume Gave. Anche a
questa Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari
Internazionali (oltre che alla consorella più giovane ma altrettanto
attiva, l' Oftal, Opera Federativa Trasporto Ammalati a Lourdes) si devono
le statistiche che inquietano un poco l' orgoglio transalpino. I
pellegrini italiani, cioè, sono spesso, nella cittadina pirenaica, più
numerosi di quelli francesi. Chi conosce Lourdes sa che tutti, lì, s'
ingegnano a parlare un po' d' italiano, i quotidiani della Penisola sono
in edicola sin dal primo mattino, nei bar si serve solo caffè espresso,
negli alberghi la pasta è impeccabilmente al dente. E proprio alla
generosità degli aderenti all' Unitalsi, all' Oftal e, in genere, degli
italiani, si devono grandi strutture di accoglienza che uniscono l'
efficienza al calore affettuoso dell' assistenza. Tra le poche parole
della bianca Signora ci sono quelle del 2 marzo 1858: «Desidero che si
venga qui in processione». A parte la Francia, in nessun altro Paese come
l' Italia quell' esortazione è stata presa tanto sul serio: e l' afflusso
non accenna a diminuire; anzi, cresce di anno in anno. Qualcuno, però,
alla recente assemblea di Rimini faceva notare che, se i pellegrini a
Lourdes hanno superato i cinque milioni all' anno, sono soltanto mezzo
milione - uno su dieci - quelli che visitano anche Nevers. Molti, da
tempo, chiedono
maggior impegno alle Associazioni perché vengano incrementati gli arrivi
in questa città sulla Loira, quasi a metà strada tra Lione e Parigi.
Legata anch' essa all' Italia (ne furono duchi i Gonzaga di Mantova),
Nevers ha in serbo per i devoti della Immacolata una sorpresa emozionante.
Noi stessi abbiamo visto pellegrini scoppiare di colpo in singhiozzi a una
vista imprevista e sconvolgente. Entrati nel cortile del convento di Saint
Gildard, Casa madre delle «Suore della Carità», si accede alla chiesa
attraverso una porticina laterale. La semioscurità, perenne in questa
architettura neogotica dell' Ottocento, è rotta dalle luci che illuminano
una artistica cassa funeraria in vetro. Il piccolo corpo (un metro e
quarantadue centimetri) di una religiosa sembra dormire con le mani giunte
attorno a un rosario e il capo reclinato sulla sinistra. Sono le spoglie,
intatte a 124 anni dalla morte, di santa Bernadette Soubirous, colei sulle
cui misere spalle di malata cronica poggia il peso del più frequentato
santuario del mondo. Lei sola, infatti, vide, ascoltò, riferì il poco che
le disse: Aquerò («Quella là», in dialetto della Bigorre), testimoniando
con la sua sofferenza ininterrotta la verità di quanto le era stato
annunciato: «Non vi prometto di essere felice in questa vita ma nell'
altra». Al noviziato di Nevers, Bernadette giunse nel 1866. Senza mai
muoversi, («Sono venuta qui per nascondermi», disse arrivando) vi
trascorse 13 anni, fino alla morte, il 16 aprile 1879. Non aveva che 35
anni, ma il suo organismo era consumato da una serie impressionante di
patologie, alle quali si erano aggiunte le sofferenze morali. Quando la
sua bara fu calata nel caveau, scavato nella terra, di una cappella nel
giardino del convento, tutto lasciava supporre che quel minuscolo corpo
mangiato anche da cancrene si sarebbe presto dissolto. In realtà, proprio
quel corpo è giunto intatto sino a noi, anche negli organi interni,
sfidando ogni legge fisica. Uno storico e scienziato gesuita, il padre
André Ravier, ha pubblicato di recente i resoconti completi delle tre
riesumazioni, basandosi su una documentazione inattaccabile. In effetti,
nella Francia anticlericale tra Otto e Novecento, a ogni apertura del
sepolcro assistettero, sospettosi, medici, magistrati, funzionari della
polizia e del Comune. I loro rapporti ufficiali sono stati tutti
conservati dalla pignola amministrazione francese. La prima riesumazione,
per l' inizio del processo di beatificazione, avvenne nel 1909, trent'
anni dopo la morte. All' apertura della cassa, alcune anziane suore, che
avevano visto Bernadette sul letto di morte, svennero e dovettero essere
soccorse: ai loro occhi la consorella apparve non soltanto intatta, ma
come trasfigurata dalla morte, senza più i segni della sofferenza sul
volto. Il rapporto dei due medici è categorico: l' umidità era tale da
avere distrutto gli abiti e persino il rosario, ma il corpo della
religiosa non era stato intaccato, tanto che anche denti, unghie, capelli
erano tutti al loro posto e pelle e muscoli si rivelavano elastici al
tatto. «La cosa - scrissero i sanitari, confermati dai rapporti dei
magistrati e dei gendarmi presenti - non appare naturale, visto anche che
altri cadaveri, sepolti nello stesso luogo, si sono dissolti e che l'
organismo di Bernadette, flessibile ed elastico, non ha subito nemmeno una
mummificazione che ne spieghi la conservazione». La seconda riesumazione
avvenne dieci anni dopo, nel 1919. I due medici, stavolta, erano famosi
primari e ciascuno, dopo la ricognizione, fu isolato in una stanza perché
scrivesse il suo rapporto senza consultarsi con il collega. La situazione,
scrissero entrambi, era rimasta la stessa della volta precedente: nessun
segno di dissoluzione, nessun odore sgradevole. La sola differenza era un
certo scurimento della pelle, dovuto probabilmente al lavaggio del
cadavere, dieci anni prima. La terza e ultima ricognizione fu nel 1925,
alla vigilia della beatificazione. A quarantasei anni dalla morte - e alla
consueta presenza delle autorità non solo religiose, ma anche sanitarie e
civili - sul cadavere, ancora intatto, si poté procedere senza difficoltà
all' autopsia. I due luminari che la praticarono pubblicarono poi una
relazione su una rivista scientifica, dove segnalarono all' attenzione dei
colleghi il fatto (che giudicavano «più che mai inspiegabile») della
conservazione perfetta anche degli organi interni, compreso il fegato,
destinato più di ogni altra parte corporea a una rapida decomposizione.
Vista la situazione, si decise di mantenere accessibile alla vista quel
corpo che appariva non di una morta, ma di una dormiente in attesa del
risveglio. Sul viso e sulle mani fu applicata una leggera maschera, ma
solo perché si temeva che i visitatori fossero colpiti dalla pelle scurita
e dagli occhi, intatti sotto le palpebre, però un po' infossati. E' certo,
comunque, che sotto quella sorta di maquillage e sotto quell' abito antico
delle «Suore della carità», c' è davvero la Bernadette morta nel 1879,
fissata misteriosamente, e per sempre, in una bellezza che il tempo non le
ha tolto ma restituito. Qualche anno fa, per un documentario per Rai Tre,
mi fu concesso di far girare di notte, per non disturbare i pellegrini,
delle immagini ravvicinate mai permesse prima. Una suora aperse il vetro
della cassa, capolavoro di oreficeria. Esitante, toccai con un dito una
delle piccole braccia della minuscola Santa. La sensazione immediata di
elasticità e di freschezza di quella carne, morta per il «mondo» da più di
120 anni, resta per me tra le emozioni incancellabili. Davvero, non
sembrano avere torto, tra Unitalsi e Oftal, a voler richiamare l'
attenzione sull' enigma di Nevers, spesso ignorato dalle folle che
convergono sui Pirenei.
Vittorio Messori
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